Garibaldi il primo Massone d'Italia
Come ricordato dallo stesso Garibaldi nelle sue ‘Memorie’, l’ ‘Eroe dei due Mondi’, da ragazzo, aveva imparato a navigare con il Capitano Angelo Pesante di San Remo ed a quest’ultimo doveva quel suo primo viaggio, dai connotati tutti ‘iniziatici’, nel Mar Nero, esperienza indelebile di memoria gioventù.
Da Pesante sentì parlare dell’Uruguay, paese con il quale il capitano sanremese aveva stabilito dei traffici commerciali e dove poi si recò Garibaldi a combattere come rivoluzionario. (1)
Proprio a Montevideo, nel 1844, il futuro Generale venne iniziato massone in una loggia indipendente denominata “L’Asilo de la virtud”, in seguito viene affiliato nella loggia “les Amis de la Patrie”, sempre nella capitale uruguayana, all’obbedienza del Grande Oriente di Francia, “regolarizzando” così la sua iniziazione. (2)
Nel 1850 frequenterà a New York i lavori dei fratelli americani, ed a Londra, nel 1854, non mancherà di muovere gli attrezzi dell’Arte Reale.
A Palermo verrà consacrato al grado di maestro massone e sempre nel capoluogo siciliano, nel 1862, verrà elevato dal quarto al trentatreesimo grado del Rito Scozzese Antico ed Accettato, assumendo la guida del Supremo Consiglio scozzesista palermitano.
Due anni più tardi, verrà eletto Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, la cui sede era stata trasferita da Torino a Firenze, e prezioso fu il suo “diretto intervento per attribuire alla massoneria unità e potere determinante nella vita del paese tra il 1864 ed il 1869. (3)
Secondo Garibaldi, evidentemente profondo conoscitore dell’operazione napoleonica di unificazione del territorio italico anche attraverso la costituzione, a Parigi, di un Supremo Consiglio di Rito Scozzese Antico ed Accettato, con il compito di riunire le varie obbedienze massoniche del nord e del sud Italia, la lotta per completare l’unificazione nazionale e quella per riunire le varie obbedienze massoniche dovevano andare all’unisono e quasi sovrapporsi.
La massoneria, per il Generale, costituiva l’unico organismo dotato di una pur labile articolazione su base nazionale, doveva rappresentare lo strumento di aggregazione di tutte le forze progressiste italiane, per le quali, in quel momento, l’obiettivo assolutamente prioritario era rappresentato dalla lotta per la liberazione di Roma.
Proprio a sancire questo suo intento ecumenico e conciliatorio Garibaldi, nel giugno 1867, pur conservando la carica di gran maestro del Consiglio scozzesista palermitano, accettò la nomina a gran maestro onorario del Grande Oriente d’Italia che gli venne conferita dalla Costituente massonica di Napoli. (4)
Scriveva il Gran Maestro nel 1872: “Io credo che siamo tutti d’accordo nel riconoscere il profondo malcontento di tutta Italia – malcontento per cause economiche, politiche e morali; nell’ammettere che, per toglierlo, tutti gl’interessi debbano essere rappresentati nel governo della cosa pubblica; nel volere pertanto il voto universale e l’abolizione del giuramento, a ciò che tutte le opinioni abbiano un voto in Parlamento; nel volere soppresse le guarentigie; tolto il culto ufficiale ed indivisa la sovranità dello Stato; rimaneggiato il sistema tributario a ciò che paghi solamente e progressivamente chi ha; rotta la centralizzazione e avviato un sistema di verace decentramento; armata la nazione per essere in grado di liberare le province irridente; arati e bonificati i due quinti del territorio italiano, incolto o paludoso, fecondandolo con i 115 milioni dei beni ecclesiastici invenduti; utilizzati a pro dei poveri i 1500 milioni di Opere pie, in gran parte goduti dagli amministratori, dai frati e dalle oblate; guarita, con tutti i rimedi che ispira l’affetto e suggerisca la scienza, la gran piaga della miseria; proporzionata l’autorità del potere legislativo e dell’esecutivo; e per ottenere questi risultati è necessario rivedere lo Statuto; insufficiente e inferiore ai nuovi bisogni della patria, a ciò che essa si regga non con una carta largita trent’anni addietro ad una sola provincia, ma posi e stia sovra un patto nazionale. A me pare che queste siano le principali idee sulle quali non corra divario fra noi. Principiamo col far trionfare quella che le contiene tutte e dalla quale tutte deriveranno, il suffragio universale e l’abolizione del giuramento”. (5)
Nel 1872, Garibaldi aveva rilanciato con estrema lucidità quello che sarebbe divenuto il principale progetto dei suoi ultimi anni di vita e il testamento ideale che egli avrebbe lasciato alla sinistra italiana post-risorgimentale: l’idea cioè di riunire in un fascio comune tutte le correnti della democrazia, tutte le forze impegnate nella diffusione dei valori della cultura laica, della libertà, del progresso, di un riformismo che accettava di muoversi all’interno del quadro istituzionale vigente, pur non rinunciando alla prospettiva di cambiamenti più radicali in un lontano futuro.
La Massoneria doveva farsi promotrice di questo progetto e fornire il collante ideologico e organizzativo di cui esso necessitava per essere coronato dal successo.
“Perché tutte le associazioni italiane tendenti al bene – si domandava nel 1873 – non si affratellano e non si pongono per amore d’indispensabile disciplina sotto il vessillo democratico del Patto di Roma? [….] La più antica e la più veneranda delle società democratiche, la Massoneria, non darà essa l’esempio di aggregazione al fascio italiano? Le società operaie, internazionali, artigiane, ecc. non portano esse nel loro emblema la fratellanza universale, quanto la Massoneria? Formate il fascio, adunque, repubblicani ringhiosi; stringetevi intorno al Patto di Roma”. (6)
Garibaldi, sempre fedele ai principi della Libera Muratoria, mantenne la carica di Gran Maestro ad vitam del Grande Oriente d’Italia, e nel 1881 accettò di diventare Gran Ierofante, ricoprendo il grado 97° del Rito riformato di Memphis e Misraim.
Per comprendere quale fosse l’atteggiamento del Generale nei confronti della Libera Muratoria, ci aiuta Aldo A. Mola: “Per Garibaldi ‘massoneria’ significò fratellanza di uomini liberi praticanti una ‘religiosità’ personale (rispetto di sé e degli altri), al di fuori di qualsiasi imposizione dogmatica o dottrinaria: compresa quella dei ‘catechismi’ positivistici, materialistici, ateistici recitati ai margini delle logge della Comunione massonica regolare italiana e spesso trionfanti in quelle irregolari. Anche per Garibaldi l’identificazione tra massoneria e programma nazionale risultò necessaria solo nel breve periodo della fondazione unitaria e della lotta contro la reazione. Essa era però destinata a risolversi in una più vasta identità: quella tra ‘nazione’ e ‘l’umanità’, quando lo Stato fosse giunto a esprimere (anziché conculcare) le libertà individuali, superando la condizione di ‘legge’ quale limite e costrizione ereditata dal passato.
Garibaldi conferì alla massoneria un compito più direttamente politico riconoscendole la facoltà di dirimere i conflitti tra governi nella solidarietà tra i popoli. Si colloca in quello spazio l’apparente contraddittorietà tra il pacifismo di Garibaldi, il suo sogno di un’umanità definitivamente avviata alla costruzione delle ‘magnifiche sorti e progressive’, e la sua onnipresenza ovunque risultasse in gioco l’indipendenza di un popolo o affiorasse un conflitto tra libertà e reazione. Si comprende pertanto quali ragioni spingessero Garibaldi e i suoi seguaci dall’America Meridionale all’Italia, dalla penisola alla Polonia e poi nel groviglio dei moti liberali della penisola iberica, nei Balcani, a Creta come, nel Novecento, nelle Argonne e ove ancora il nome e i simboli di Garibaldi vennero elevati a insegna delle guerre di liberazione nazionale”. (7)
Dopo la sua morte, i massoni italiani invocheranno il Generale spesso, conservandone la memoria e alimentando il mito di duce e liberatore, simbolo di quell’internazionale che voleva essere il raggiungimento di valori universali, e non ‘globali’, dell’umana comunione.
L’’ideale garibaldino’ viene a permeare le tensioni ideologiche dei fratelli del Ponente ligure, soprattutto tra coloro che individuano nella vita d’azione del Generale un esempio da seguire per risolvere i problemi della società del momento. Scrive un massone del Ponente, ispirato dall’epopea garibaldina, ma nell’intento soprattutto di individuare nel presente quel continuum storico che idealmente univa il neonato Regno d’Italia attraverso i suoi personaggi illustri, antichi e contemporanei.
“La vita di Giuseppe Garibaldi ha tutto il rilievo delle vite dei grandi antichi, tramandateci nelle pagine di Plutarco e Livio.
Si ripete un luogo comune, ma si consacra una grande verità, quando si dice che su Lui la storia si confonde con l’epopea, sicché spesso Plutarco e Livio diventano Omero e Virgilio.
E’ un seguito meraviglioso di episodi epici: dalle prime battaglie d’America agli eroismi di Roma, da Calatafimi al Volturno, dalla sconfitta di Mentana alla nobile vendetta della campagna dei Vosgi.
Aggiunge fascino d’idealità, concorre a fare di Garibaldi un simbolo quella parte del suo programma che appare accennata, incompiuta. Egli è grande non solo perché traversa, invulnerabile arcangelo, il fuoco di cento battaglie; perché entra vittorioso a Palermo ed a Napoli; ma altresì perché è fermato alla Cattolica, nel 1859; ad Aspromonte, nel 62; alle porte di Trento, nel 66; a Mentana, nel 67; perché, anche morto, gli è conteso il rogo omerico di mirto e di lentisco.
L’impedimento che muove sempre dalle stesse influenze auliche, fa di Lui un simbolo che l’infultura; mentre le gesta di Vittorio, il primo re d’Italia, rimangono un fatto del passato. L’affiliato della Giovane Italia è vissuto tanto da salutare il sole dell’Avvenire.
Nondimeno Garibaldi è una figura afferrabile, non mistica, non trascendente la natura umana a cui la raccostano le inevitabili debolezze umane. Simbolo ancora, sempre, finché non solo sia compiuta l’Italia ed affermata la fratellanza delle nazioni, ma finché non sia assicurato lo spirito umano dai danni della superstizione e l’Italia dall’onta dell’influsso pretesco.
Verso il prete Egli ripeterebbe la strofa composta, quando l’Italia tremava sotto la verga del Tedesco:
Io la vorrei deserta
E i suoi palagi infranti,
Pria che vederla trepida
Sotto il baston del Vandalo.
Garibaldi sentirebbe certamente i nuovi Vandali nel Vaticano e nei suoi alleati.”(8)
Tema dominante è sempre quello dell’anticlericalismo e della lotta contro il potere temporale dei papi. Risulta chiaro agli intelletti dei liberi muratori che senza l’affrancamento dalla Chiesa cattolica, intesa come vero e proprio centro di potere politico, quanto mai lontana dal religioso, non fosse possibile la costruzione dello stato laico.
I massoni del Ponente ligure, dalle antiche tradizioni rivoluzionarie, prima giacobine poi bonapartiste, ‘regolamentati’ dagli anni dell’egemonia imperiale, dove le logge costituivano, insieme alla capillare burocrazia, il tessuto connettivo dell’Empire, si sentivano semmai cristiani e non cattolici. Animati da quella religiosità ‘naturale’ scevra dagli orpelli dogmatici e dalle certezze rivelate.
Un fratello di Sanremo, dal cui stile sembra si possa riconoscere l’allora sindaco di Sanremo, Orazio Raimondo, scriverà, sul pamphlet dedicato a Garibaldi edito dalla massoneria savonese il 4 luglio 1907, il saggio ‘L’attesa’: “Rievocando Giuseppe Garibaldi, rievoca la mente nostra quasi mezzo secolo di vita nazionale e di grandezza, l’epiche lotte per l’avvento e il trionfo della libertà e della civiltà, il trionfo della ragione sul dogma.
Rievoca la pallida nera figura del tribuno, grande quanto la luce e l’ombra: del tribuno che ebbe la mente di Platone e il cuore di Dante, cuor che le amarezze colmarono, ma né dolore , né sventura mai spezzò: il Giugno del 1849: Roma costretta da tre eserciti nemici come in ferrea cerchia; i vecchi, le donne e i fanciulli in sulle mura a veder la battaglia terribile; il dì 3 di giugno; il tuono delle artiglierie nemiche dalle trincere della cortina sul Vascello; la rovina; il crepito delle fanciullate, lo scoppio degli obici; lo strepito della battaglia; la notte; i subiti bagliori; l’urto de la falange giovanile da Porta San Pancrazio; i clamori; la voce imperiosa del Dittatore; la volontà più dura della sorte; la morte.
O Mameli, o Dandolo, o Daverio, o Morosini, o Manara, o martiri tutti della libertà! O sacri eroi che combatteste con la spada e con l’idea per la terza Italia!
Ieri è pur morto quegli che vi cantò, il vostro Poeta, l’ultimo grande che avesse ancora l’Italia.
Or la genia nova è di gnomi e di coboldi.
E gli gnomi e i coboldi schiamazzano e fanno sconcio tumulto e gavazzano su le vostre tombe gloriose, e vi calpestano le rame di alloro e ne fanno strame, e vi sputacchiano a gara le faccie, e si credono grandi.
Per l’opera loro, l’Italia dalla usurpazione passa alla restaurazione e sta per passare a più tristi servitù, perciocché costoro hanno fatto turpe mercato con gli stessi nemici; l’hanno condotta per mezzo d’inganni nel Vaticano; hanno voluto un triste connubbio.
E certi gnomi, rappresentanti della terza Italia, sono entrati nel Parlamento, passando per l’usciolo della sagrestia, e l’usciolo è rimasto aperto; un principe, diverso troppo dall’alvo suo grande, ha assistito, nella città più popolosa d’Italia, in forma ufficiale, alla maggiore superstizione; l’esercito rende ai cardinali gli onori dovuti ai principi: le nostre navi da guerra, che fecero così triste prova nel mare di Lissa. Splendono di bandiere e di pavesi nelle solennità religiose; le congregazioni che la Francia repubblicana discaccia della sua terra, qui trovano l’accoglienza, la mollezza, i piaceri, il vino e la gaia vita, come nei tempi di messer Boccaccio.
E, in questo stato di cose, i coboldi e gli gnomi proclamano la grandezza, l’indipendenza d’Italia, il suo prossimo trionfo su la gente slava e latina!
Ma il popolo d’Italia, il popolo d’Italia ch’è il vero, il solo rappresentante della tradizione e della virtù di stirpe, e ha fede nei tempi, attende libertà e giustizia, e guarda con fremito al di là della vergogna e dell’onta; e vede, a primavera, la forza dei germogli rampollar dal cuor dei grandi, e sente nel respiro del Tirreno il respiro del Leone che dorme a Caprera e gli grida: Vieni, ritorna, o Duce, o Liberatore, o Dittatore, per fin che lo vegga, come nell’elogio del Poeta, ritornar cavalcando alla fronte dei nostri eserciti e ancora guidarci alla vittoria e alla gloria.” (9)
Per comprendere il pensiero di Garibaldi, in ordine alla sua visione della Massoneria come essenziale collante per l’unità della Patria e quale elemento fondamentale del processo di nation building nel quale il condottiero era da sempre impegnato, è illuminante conoscere la missiva inviata nel 1867 al Supremo Consiglio scozzesista di Palermo.
Al Sup. C. di Palermo.
Firenze, 18 maggio 1867 E. V.
Giuseppe Garibaldi FF.
Come non abbiamo ancora la patria perché non abbiamo Roma, così non abbiamo Massoneria perché divisi. Se la vecchia lupa della diplomazia da una parte, e l’apatia del popolo dall’altra, ci contendono Roma, chi in Massoneria potrà mai contenderci una patria, una Roma morale una Roma Mass:.?
Io sono di parere che l’unità Massonica trarrà a sé l’unità politica d’Italia. E’ quindi mio vivo desiderio che un’Assemblea sia convocata, onde ne sorga una Costituente.
Facciasi in Mass. quel Fascio Romano che ad onta di tanti sforzi non si é potuto ancora ottenere in politica.
Io reputo i massoni eletta porzione del popolo italiano.
Essi pongano da parte le passioni prof. e con la coscienza dell’alta missione che dalla nobile istituzione Mass. gli è affidata, creino l’unità morale della Nazione. Noi non abbiamo ancora l’unità morale; che la Mass. faccia questa, e quella sarà subito fatta.
FF.
Io altro non aggiungo. Voi della sacra e sventurata Terra delle iniziative, farete opera veramente degna dei figli del Vespro, se alle glorie politiche e patriottiche unite l’aureola della rivoluzione morale e mass.
Uniamoci! E saremo forti per vincere con la virtù il vizio, con il bene il male, e la patria e l’umanità ce ne saranno riconoscenti.
Vi prego intanto a voler dare comunicazione della presente tav. a tutte le nostre LL., essendo mio fermo proposito che esse sieno invitate a nominare cadauna il proprio rappresentante e per l’assemblea generale Mass., che avrà luogo in Napoli nel locale della G. L. Egeria Or. Di Napoli, in via Nilo n. 30, pel dì 21 del prossimo mese di giugno, alla quale assemblea spero di poter intervenire come rappresentante il G. Or. Di Palermo.
FF. L’astensione è inerzia, è morte. Urge l’intendersi, e nell’unità degli intendimenti, avremo l’unità di azione. Laonde spero che nessuno mancherà all’appello. Sono con tutta l’anima. Vostro F.(ratello). (10)
Aldo A. Mola ha bene commentato la missiva sopra riportata, evidenziando che Garibaldi, nell’ultimo tentativo di risolvere la questione romana, sperava di poter contare “sul concorso unitario della massoneria italiana, non come coacervo degli anticlericali, bensì come organizzazione capace di imporre anche alla Chiesa la liberazione dai ceppi del dogmatismo e la palingenesi del cristianesimo”. (11)
NOTE
1) Luca Fucini, LA MASSONERIA NEL PONENTE LIGURE, op. cit.
2) Aldo A. Mola, GARIBALDI VIVO, op. cit.
3) Aldo A. Mola, GARIBALDI VIVO, op. cit.
4) Aldo A. Mola, STORIA DELLA MASSONERIA ITALIANA, op. cit.
5) Aldo A. Mola, GARIBALDI VIVO, op. cit.
6) Aldo A. Mola, GARIBALDI VIVO, op. cit.
7) Aldo A. Mola, GARIBALDI VIVO, op. cit. pag. 220.
8) GARIBALDI , Numero unico edito dalla Massoneria savonese, Savona, 4 luglio 1907
9) GARIBALDI , Numero unico edito dalla Massoneria savonese, op. cit.
10) Aldo A. Mola, GARIBALDI VIVO, op. cit. pag. 247, 248.
11) Aldo A. Mola, GARIBALDI VIVO, op. cit. pag. 247.