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Galileo Galilei e la continua lotta per la libertà.

Galileo Galilei e la continua lotta per la libertà.
M.V.,
Carisssimi Fr.lli,
Quest’anno si celebra il quattrocentocinquantesimo anniversario della nascita di Galileo Galilei, nato a Pisa il 15 febbraio del 1564 e questo, oltre ad un avvenimento di enorme rilevanza dal punto di vista della storia del pensiero scientifico, rappresenta anche per noi massoni un importante momento di riflessione, dal momento che da sempre Galileo, insieme a Giordano Bruno, è un nostro autore fondamentale di riferimento.

Aveva studiato medicina, ma cominciò ben presto a coltivare la matematica approfondendo le grandi opere dei greci Euclide ed Archimede. Si applicò con grande interesse alla meccanica, e, in genere, a quella che possiamo definire l’osservazione dei fenomeni naturali.
Si deve ricordare, al riguardo, la scoperta proprio in quegli anni dell’isocronismo delle oscillazioni del pendolo compiuta nel 1583 e la costruzione della bilancetta per la determinazione del peso specifico dei corpi, realizzata nel 1586.
Dopo un periodo vissuto presso l’Ateneo di Pisa come lettore di matematica, nel 1592 ottiene la nomina di professore di matematica presso l’Università di Padova, dove trascorre diciotto anni nei quali gode di una grande libertà di pensiero garantitagli dalla Repubblica di Venezia, di cui Padova faceva parte.
Nel 1597 inventa il cosiddetto compasso geometrico militare che appartiene a quel novero di strumenti militari studiati e messi a punto nel corso del Rinascimento per eseguire facilmente calcoli aritmetici ed operazioni geometriche.
Era, questa del compasso, la risposta ad un’esigenza sentita soprattutto in campo militare dove la tecnologia delle armi da fuoco richiedeva sempre più precise cognizioni matematiche.
Il compasso, capostipite dei cosiddetti regoli calcolatori, strumenti di lavoro di geometri e ingegneri, soppiantati solo con l’avvento dei calcolatori elettronici, permetteva tutta una serie di calcoli: dalla quantità di carica esplosiva in rapporto al peso del proiettile, alla misurazione dell’alzo dei cannoni relativamente alla distanza dell’obiettivo; dalla misurazione delle pendenze come l’inclinazione delle muraglie delle fortificazioni, fino al numero ottimale dei soldati da disporre a difesa di una determinata area.
Al 1609 risale la scoperta del cannocchiale. Più che di scoperta si deve parlare di modifica e di miglioramento dello strumento che Galileo ha l’intuito, la perizia, la curiosità e l’intelligenza di rivolgere al cielo e di utilizzarlo, quindi, non solo per scorgere, per esempio, la presenza di una nave all’orizzonte, ma, soprattutto, per le proprie ricerche astronomiche.
E, puntando il telescopio al cielo, Galileo ebbe la fortuna e la gioia di scoprire nuovi e straordinari fenomeni, dei quali colse da subito l’importanza.
Tutto un nuovo campo di ricerca si apriva agli uomini: dalle macchie solari ai crateri lunari, dai corpi celesti fino ai quattro satelliti di Giove da lui osservati la prima volta nel gennaio del 1610 e chiamati Medicei in onore del Gran Duca di Toscana.
Di tali scoperte ne dette annuncio nell’opera “Sidereus Nuncius” pubblicata a Venezia il 12 maggio del 1610.
Le scoperte di Galileo dovevano certamente suscitare, oltre la curiosità, anche l’invidia e la diffidenza tra i pensatori più fedeli alla tradizione.
Sorse quindi un’aspra polemica nella quale gli avversari di Galileo fecero di tutto per screditare lo scienziato, come, ad esempio, il tentativo di alimentare artatamente la diceria secondo la quale le ombre e le macchie da Lui individuate nel cielo e sulla luna erano dovute esclusivamente alla struttura difettosa delle lenti.
Ben presto Galileo ebbe anche molti riconoscimenti da parte dei più autorevoli scienziati dell’epoca, come lo stesso Keplero, ma anche dei potentissimi astronomi e filosofi della Compagnia di Gesù.
Sull’onda delle sue ricerche astronomiche, Galileo pose mano alla struttura generale del mondo celeste e, sulla base delle sue nozioni che andava maturando nei suoi studi di meccanica, divenne sempre più convinto fautore del sistema copernicano, proprio nel momento in cui anche la Chiesa orientava il proprio interesse per la teoria eliocentrica, concentrando su di essa i sospetti di eresia.
Come sottolinea il filosofo della scienza Ludovico Geymonat, quello che possiamo definire un atteggiamento imprudente di Galileo al riguardo (non dimentichiamo la sorte che ebbe Giordano Bruno con la sua condanna al rogo avvenuta il 17 febbraio del 1600), l’atteggiamento di Galileo, dicevo, rispondeva ad una particolare esigenza del suo animo.
Di fatto, Galileo era assolutamente certo della verità scientifica del sistema eliocentrico; dal punto di vista filosofico non era intenzionato ad ammettere la coesistenza tra loro di verità antitetiche e non era disposto a considerare la religione come un complesso di regole pratiche, inventate per dominare i popoli ed ingannare gli ingenui.
Al contrario, egli era convinto della possibilità di dimostrare che i testi sacri non contengono, se ben interpretati, alcuna affermazione in reale antitesi con la verità copernicana.
C’è da dire che quello che a noi appare ora come un dato scontato: la fine dell’universo tolemaico-aristotelico, sul quale si basava tutta la concezione cattolica, allora veniva fatto apparire come uno sconvolgimento radicale, il delegittimare ciò che la Chiesa aveva costruito nel corso dei secoli; era il venir meno di tutti quelli che erano stati i capisaldi essenziali di riferimento, sia dal punto di vista cosmologico: la terra al centro dell’universo, ma anche dal punto di vista antropologico: l’uomo al centro della terra; terra nella quale si era svolta anche l’esperienza del Cristianesimo.
Ma è altrettanto vero che la Chiesa non era capace di confrontarsi con quelli che erano gli eventi che si stavano delineando a livello di rivoluzione scientifica, relativamente alla nuova concezione del mondo, e che si sarebbero proposti nel corso del ‘600.
E’ proprio uno dei massimi teologi del nostro tempo, Hans Küng, nella sua opera: “Dio esiste?”, che ci offre una sua interpretazione su quello che fu l’atteggiamento delle Autorità ecclesiastiche, e a dare un senso a questa posizione di rifiuto dogmatico.
“La condanna di Galileo”, egli dice, “da parte dell’autorità romana competente per la fede, approvata dallo stesso papa Urbano VIII ed imposta alle università cattoliche con tutti i mezzi autoritari degli inquisitori e delle nunziature, soltanto in apparenza difende la Bibbia. In realtà essa voleva soprattutto difendere l’immagine greco-medievale del mondo, e in particolare l’autorità di Aristotele, con le cui dottrine fisiche, biologiche e filosofiche si identificava l’immagine biblica del mondo. Ma con tutto ciò si difendeva anche la supremazia, assicurata giuridicamente, della teologia nella gerarchia delle scienze, l’autorità della Chiesa in
tutti i problemi vitali e, quindi, la pura e semplice sottomissione, ciecamente obbediente, al sistema dottrinale ecclesiastico. Questo pronunciamento romano, in teologia, venne considerato una decisione praticamente infallibile e irriformabile, che spense sul nascere ogni minimo tentativo dei teologi più aperti di riflettere sul messaggio biblico, come era già avvenuto nel XIII secolo, alla luce di una nuova visione del mondo. Si era perduto un appuntamento storico, e da allora fino ai nostri giorni la Chiesa cattolica (nonostante qualche timido tentativo di ravvicinamento) si presenta, in parte, come nemica soprattutto della scienza naturale; è quanto la Vita di Galileo di Bertold Brecht ci fa rivivere come un dramma carico di una tensione scientifica, sociale, politica e morale estremamente attuale. Non a torto si è annoverata la condanna di Galileo, e quindi la perdita del mondo della scienza, tra le tre maggiori sventure del mondo della Chiesa, assieme allo scisma orientale e alla frattura occidentale della fede cristiana. Per una parte essenziale, l’abisso che separa la Chiesa dalla civiltà moderna, e che è ancora lontano dall’essere colmato, è stato scavato proprio qui. Ma la tragedia personale di Galileo consistette nell’incapacità sua e dei molti che pensavano come lui a convincere il magistero ecclesiastico della verità delle sue affermazioni e a coalizzare, come nel Medioevo, la Chiesa e la scienza nuova. << Equivale ad usare la Sacra Scrittura per un fine per il quale Dio non l’ha affatto data, e quindi ad abusarne, se si vuole ricavare da essa la conoscenza di verità, che appartengono soltanto alla scienza umana e non servono alla nostra salvezza>>. Così scriveva Descartes nel 1638, mentre, nel nostro secolo, neppure il Concilio Vaticano II ha osato esprimersi con altrettanta chiarezza nella sua costituzione sulla rivelazione1.
Galileo, al contrario, cerca di spiegare che una cosa è il libro di Dio ed altra cosa è il libro della Natura. In una lettera a Cristina di Lorena, consorte del Gran Duca di Toscana, afferma che la Bibbia insegna come si va in cielo e non come va il cielo.
Qui Galileo riprende tutta una serie di argomenti che appaiono già nel “Trattato teologico e politico” di Spinoza e che erano già stati sviluppati da Bruno ne “La cena delle ceneri”; temi e problematiche inerenti l’esegesi stessa del testo biblico: come va letto e decifrato, come parla, di cosa parla, a chi si rivolge.
In sostanza Galileo argomenta sul lessico del testo sacro che non è fatto per essere rivolto a uomini di cultura o a scienziati, ma al popolo ebraico, con l’obiettivo di dare principi ed indirizzi di pratica di vita e non principi di verità scientifica.
In questo senso però Galileo si pone in un ambito culturale che va ben al di là del clima intellettuale del Rinascimento, nel quale, per altro, si era formato.
Il Rinascimento era pieno di indovini, astrologhi, maghi e lo stesso Galilei per arrotondare i suoi guadagni compilava oroscopi ai quali certamente non credeva. Egli, di fatto, si colloca al centro di un’esperienza fondata su un’idea della Natura che è del tutto diversa dall’idea della Vita, propria dei più grandi pensatori del Rinascimento: Bruno, Campanella, Macchiavelli, per i quali la Vita è intesa come forza originaria che non può essere ricondotta all’interno di un qualsiasi principio di misura.
La concezione della Natura di Galileo, ma anche di Hobbs e di Spinoza, è quella concezione propria della Rivoluzione scientifica moderna, per la quale la vita si identifica con la Natura, la quale può essere decifrata attraverso la matematica e la geometria mediante quel processo analitico che è in grado di mettere a fuoco e spiegare quelle che sono le strutture della Natura stessa.
Tale differenza culturale è evidente anche nell’ambito della tragica esperienza dei processi che dovettero subire sia Bruno che Galilei.

Per Bruno quello che emerge, oltre alla visione degli infiniti mondi che esclude la creazione, è il concetto dell’Anima intesa come il nocchiero che conduce la nave e che può passare da una ad un’altra nave, e quindi da un corpo ad un altro corpo quando quello precedente viene meno.
Vi è, inoltre, il concetto di Cristianesimo inteso come una vicenda locale e periferica, circoscritta, quindi, ad una regione del mondo che è la Terra. Con questo Bruno arriva ad affermare che gli altri mondi sono popolati da forme di vita superiori alla nostra in quanto non hanno subìto, come i terrestri, l’ombra del peccato originale.
Non è questa la posizione di Galileo e non è questo l’oggetto del suo processo.
Se con Giordano Bruno si è di fronte ad una visione cosmologica, antropologica e teologica totalmente nuova, anti e post cristiana, con Galileo, al contrario, non si è al cospetto di un rivoluzionario, ma di un grande scienziato che fonda, con le sue ricerche, una nuova visione del mondo.
Sono due grandissime figure completamente diverse anche se, nella tradizione laica sono stati accomunati in quanto, entrambi, sostenitori della libertà di pensiero, della cosiddetta “Libertas philosophandi”.
Come ci dimostrano il processo di Bruno ed il processo di Galilei, la storia della libertà, in ogni momento, ha rappresentato il costo di prezzi altissimi. La libertà che gli uomini hanno raggiunto è stata sempre il frutto di un processo doloroso, pieno di lotte, di condanne, carceri, persecuzioni e di roghi.
Questo conflitto vitale per la conquista della libertà è reso possibile dai protagonisti per il loro sguardo positivo sulla realtà, dall’entusiasmo, dall’ardore e dalla passione che questi uomini eccezionali, come Bruno e Galileo, hanno sempre dimostrato nell’amore per la ricerca della verità, al di là di ogni vincolo e preconcetto.
E’ per tale motivo che la libertà va sempre difesa con ogni mezzo.
Nella seconda metà dell’ottocento, duecentocinquanta anni dalla nascita di Galileo Galilei, quando viene costituito lo stato unitario italiano, si pone il problema di costruire le basi etico-politiche di questo stato. Si cerca di individuare i valori di fondo che lo tengono assieme e lo fondano.
Questa è l’esigenza che assilla la classe dirigente dell’epoca, per la quale era necessario rifondare Roma dando al nuovo stato fondamenta moderne, scientifiche e laiche, ma soprattutto estranee dalla tradizione cattolica.
E’ questo un atteggiamento proprio di larga parte della classe dirigente liberale cavouriana molto vicina alle posizioni della Massoneria che fa di Bruno, ma anche di Galileo, come è stato detto, gli autori fondamentali di riferimento di una battaglia che riguarda la scienza come ideale da perseguire.
Il monumento in bronzo a Giordano Bruno nella piazza romana di Campo de’ Fiori, è opera dello scultore Ettore Ferrari, nostro Fratello, e mostra il Filosofo con lo sguardo rivolto in direzione della Città del Vaticano, in segno di monito alla Chiesa.
Il nuovo stato, storicamente, non riuscì a dotarsi di principi alternativi a quelli cattolici; non riuscì a costituire quel vincolo civile di natura laica, esigenza questa che aveva preso le mosse con il rogo di Giordano Bruno e con l’abiura di Galileo Galilei.
Ed è per questo che Bruno e Galileo appaiono tutt’ora, anche agli occhi del popolo, come grandi padri fondatori, protagonisti e martiri di una battaglia perduta per la libertà di pensiero, di cultura e di ricerca, e che costituiscono per i moderni, per noi stessi e per i nostri figli, uno straordinario esempio di impegno civile.
Olbia 14 ottobre 2014